RESPONSABILITÀ MEDICA: LA CORTE D'APPELLO DI TORINO RIBADISCE LA NATURA CONTRATTUALE
LA RESPONSABILITÀ MEDICA RIENTRA SEMPRE NEL "SOTTOSISTEMA" DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE CONTRATTUALE
Con una recente pronuncia, la Corte d’Appello di Torino, confermando la sentenza emessa dal Giudice di primo grado, ha riaffermato, in maniera assai dettagliata, quali debbano intendersi i principi di diritto in tema di responsabilità medica, da considerarsi sempre come un sottosistema della responsabilità civile di natura contrattuale.
Nei confronti del paziente, la struttura sanitaria pubblica o privata è obbligata in forza di un contratto atipico, di “spedalità” o di “assistenza sanitaria”, che si perfeziona con l’accettazione del malato presso la struttura. Il contratto ha ad oggetto sia le prestazioni di carattere sanitario, sia quelle accessorie di fornire assistenza, vitto e alloggio al malato.
L’ente titolare del rapporto contrattuale è sempre quello che ha la materiale gestione della struttura, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto organico che lo leghi al medico. Esso può essere chiamato a rispondere nei confronti del paziente sia per il fatto colposo del medico suo dipendente o incaricato, sia per il fatto colposo proprio, che può consistere nella carente od omessa predisposizione di macchinari, strutture e presidi terapeutici, di turni efficienti di personale o nella culpa in eligendo o in vigilando in generale.
Quanto al medico, anche quando non esista un vero e proprio contratto diretto con il paziente, egli risponde sempre a titolo di responsabilità contrattuale. Si parla, al riguardo di “responsabilità da contatto”: quando il medico decide di intervenire sul piano terapeutico, tra costui ed il paziente si configura un vero e proprio rapporto giuridico dal quale nascono i medesimi diritti ed obblighi che scaturirebbero da un contratto di prestazione d’opera intellettuale in forza del quale il paziente ha il diritto di essere curato ed il medico ha l’obbligo di eseguire diligentemente la propria prestazione.
La diligenza del medico non è mai generica: egli, svolgendo un’attività ad elevato contenuto professionale, è tenuto alla più accurata diligenza esigibile in concreto, tenuto conto della delicatezza delle funzioni svolte e della fondamentale rilevanza degli interessi in gioco, che consistono nel diritto alla salute e alla vita, costituzionalmente garantiti.
Dalla natura sempre contrattuale della responsabilità sanitaria deriva che il paziente può sempre invocare la presunzione di colpa del medico prevista dall’art. 1218 c.c. ed il nesso causale può essere ritenuto sussistente anche quando vi sia incertezza sull’effettiva causa del danno, a condizione che il medico abbia posto in essere una condotta astrattamente idonea a cagionare il danno e non sia intervenuto un fatto idoneo di per sé solo a determinarlo.
In particolare, quanto al riparto dell’onere probatorio, il paziente ha l’onere di allegare l’esistenza del contratto e l’inadempimento dei sanitari, anche indicando solo generici profili di colpa, mentre il medico e la struttura sanitaria hanno l’onere di dimostrare di aver adempiuto alle proprie obbligazioni contrattuali con perizia e diligenza.
Non solo: il medico e la struttura devono dimostrare anche che il paziente sia stato diligentemente informato della natura dell’intervento o dell’esame diagnostico da eseguire, della portata e dell’estensione dell’intervento, dei rischi che comporta come effetti collaterali, della verosimile percentuale di successo e della possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e dei rischi di questi ultimi. In particolare, quanto ai rischi, essi devono essere tutti resi noti, anche quelli statisticamente ridotti che tuttavia incidano sulle condizioni fisiche o sulla vita del paziente, con esclusione solo degli eventi anomali, al limite del fortuito, che non assumano rilievo di significativa incidenza.
L’informazione al paziente deve essere completa e spetta al medico e alla struttura dimostrarne la pienezza.
Solo il consenso del paziente rende legittima l’attività del medico ed esso deve essere acquisito, con la necessaria informazione, anche quando si versi in stato di necessità, ove il paziente sia comunque in grado di esprimerlo.
La mancanza di un valido consenso del paziente costituisce fonte autonoma di responsabilità qualora dall’atto terapeutico scaturiscano effetti lesivi o mortali, senza che abbia alcun rilievo il fatto che l’intervento sia stato eseguito in modo corretto, perché in assenza di consenso informato l’atto terapeutico costituisce sempre illecito.
Sul paziente, invece, grava l’onere di dimostrare che, se fosse stato adeguatamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento, perché diversamente, pur in presenza di un’informazione completa, l’evento dannoso si sarebbe comunque verificato.
La sentenza della Corte d’Appello di Torino con grande chiarezza si colloca nell’alveo ormai tradizionale della giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità medica e nega fondamento agli assunti della sentenza della prima sezione civile del Tribunale di Milano del 17 luglio 2014, secondo la quale la c.d. “legge Balduzzi” avrebbe riformato il diritto vivente ed escluso che la responsabilità del medico dipendente della struttura possa ritenersi di tipo contrattuale, dovendosi sempre ritenere di natura “extracontrattuale”.
Del resto, tra le regole per l’interpretazione delle norme giuridiche indicate all’art. 12 delle preleggi, non è indicata, quale canone ermeneutico, l’esigenza di contenere la spesa pubblica, alla quale il d.l. n. 158/2012 è chiaramente ispirato, nonostante nella sua denominazione si proponga di “promuovere il Paese mediante un più alto livello di tutela della salute pubblica”.