LA CORTE COSTITUZIONALE CORREGGE LA CORTE DI CASSAZIONE ED AMPLIA LE GARANZIE A FAVORE DELL’INDAGATO
Il diritto dell’indagato o dell’imputato a non rendere dichiarazioni contro il proprio interesse non può essere limitato alle circostanze del fatto che gli viene contestato, ma deve essere esteso a tutte le notizie concernenti la sua persona che possano essere usate contro di lui.
Con la recente sentenza n° 111 del 5 giugno 2023, la Corte Costituzionale, su impulso del Tribunale di Firenze ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art, 64, 3° co., c.p.p. e dell’art. 495, 1° co., c.p. (delitto di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri) nell’interpretazione “vivente” datane dalla Corte Suprema di Cassazione, che consente che all’indagato e all’imputato vengano sottoposte domande sulle proprie qualità personali con l’obbligo di dire la verità e, soprattutto, permette che le risposte date possano essere usate contro il dichiarante.
Attraverso un’approfondita disamina, la Corte Costituzionale ha chiarito che:
- sin da tempi risalenti, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto al silenzio - definito dall'art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) come la garanzia, spettante a ogni individuo accusato di un reato, "a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole" - costituisca corollario implicito del diritto inviolabile di difesa, sancito dall'art. 24 ;
- l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo (punto 7.2. del Considerato in diritto) - ha riconosciuto il diritto al silenzio come il "diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni di natura confessoria (nemo tenetur se ipsum accusare)" (punto 3 del Considerato in diritto);
- la grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea, con sentenza 2 febbraio 2021, nella causa C-481/19, D. B. contro Consob, ha parimenti riconosciuto che il diritto al silenzio è implicitamente garantito nell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in armonia con la costante giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 6 CEDU, precisando che tale diritto "risulta violato, segnatamente, in una situazione in cui un sospetto, minacciato di sanzioni per il caso di mancata deposizione, o depone o viene punito per essersi rifiutato di deporre" (paragrafo 39), e che esso "comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell'accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona" (paragrafo 40);
- Il codice di procedura penale, però, allo stato non riconosce alla persona sottoposta alle indagini e all'imputato il diritto al silenzio rispetto alle domande relative alle proprie "generalità" e a "quant'altro può valere alla sua identificazione": domande che, ai sensi dell'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., debbono essere loro rivolte nel primo atto in cui essi sono presenti. Ciò si desume sia dallo stesso art. 66, comma 1, cod. proc. pen., che impone all'autorità procedente l'obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini delle "conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false"; sia dall'art. 64 , comma 3, lettera b), cod. proc. pen. che, nel prescrivere l'obbligo di avvertire la persona circa la facoltà di non rispondere, fa espressamente "salvo quanto disposto dall'articolo 66, comma 1", cod. proc. pen.;
- nell'ambito del diritto penale sostanziale, l' 651 c.p. prevede come contravvenzione il rifiuto di fornire le proprie generalità; e l'art. 495 c.p. commina la pena della reclusione da uno a sei anni a carico di chi "dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identità, lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona". Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, tale ultima disposizione si applica anche alla persona sottoposta alle indagini e all'imputato che fornisca false generalità;
- nella sostanza, non si tratta delle domande relative alle generalità specifiche, ma di quelle ulteriori, previste dall’art. 21 disp. att. c.p.p., relative al soprannome o allo pseudonimo, alla eventuale disponibilità di beni patrimoniali, alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché dell'invito, rivolto all'identificando, di dichiarare se sia sottoposto ad altri processi penali, se sussistano a suo carico condanne nello Stato o all'estero, e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi pubblici, servizi di pubblica necessità o cariche pubbliche;
- in questo contesto, la Corte di Suprema di Cassazione ha, da un lato, confermato che rispetto alle circostanze di cui all'art. 21 att. c.p.p non sussiste per la persona sottoposta alle indagini o imputata un obbligo di rispondere, a differenza di quanto accade rispetto alle proprie generalità; dall'altro, continua a ritenere che, ove la persona interrogata risponda e affermi il falso, sia ravvisabile nei suoi confronti il delitto di cui all'art. 495, 1° co., c.p.p. Inoltre, essa nega che le domande di cui all'art. 21 disp. att. c.p.p. abbiano attinenza con il diritto costituzionale di difesa della persona sottoposta alle indagini o imputata, e pertanto non richiede che la persona medesima sia avvertita della facoltà di non rispondere a tali domande, anzi ritiene che tali domande possano essere formulate subito dopo l'ammonimento, previsto dall'art. 66, 1° co. c.p.p circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false, così inducendo nell’indagato o imputato il convincimento di dover sempre rispondere e di dover rispondere con verità;
- inoltre, la Corte Suprema di Cassazione non ravvisa alcun ostacolo nell'utilizzare anche contra reum, in sede cautelare o di merito, le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o imputata in risposta alle domande di cui all'art. 21 att. c.p.p.: ad esempio, valorizzando le dichiarazioni sulla situazione reddituale e patrimoniale ai fini della sussistenza dei presupposti di un sequestro preventivo finalizzato alla, oppure per escludere la finalità di uso personale di sostanze stupefacenti, oppure ancora per fondare l’emissione di una misura cautelare a fronte dei precedenti o delle pendenze processuali dichiarate dall’indagato. La conoscenza del soprannome o dello pseudonimo di una persona - che, a differenza del nome e del cognome, vale a identificarla non già al cospetto dell'intera comunità civile, ma esclusivamente nella cerchia delle sue relazioni private - può essere di cruciale importanza ai fini investigativi, ad esempio in presenza di intercettazioni in cui la persona sottoposta a indagini o imputata sia stata indicata, come spesso avviene, con il soprannome: la domanda relativa a tale circostanza equivalendo, in simili casi, alla sollecitazione di una vera e propria confessione;
- la Corte Costituzionale ritiene che l'assetto appena descritto del “diritto vivente” non assicuri sufficiente tutela al diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata di cui all'art. 24 , letto anche alla luce degli obblighi internazionali vincolanti per il nostro Paese e del diritto dell'Unione Europea. La dimensione costituzionale del diritto al silenzio esclude che possa ravvisarsi un obbligo o un dovere della persona sottoposta ad indagini di fornire all'autorità procedente le informazioni previste dall’art. 21 disp. att. c.p.p., e in tal modo di configurare un obbligo o un dovere dell’indagato di collaborare nelle indagini e nel processo a proprio carico;
- come evidenziato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti (M. v. Arizona, 384 U.S. 436 [1966]), la garanzia effettiva del diritto a non contribuire alla propria incriminazione esige la previsione di idonei strumenti procedurali per assicurarne il rispetto da parte della polizia e dell'autorità giudiziaria. Per controbilanciare la pressione psicologica che inevitabilmente è connessa ad un interrogatorio compiuto in un tribunale o in un ufficio della procura, e che può comprensibilmente indurre la persona interrogata a rendere dichiarazioni che non avrebbe reso in diverse circostanze, è necessario che la persona sia "adeguatamente ed effettivamente informata dei suoi diritti", attraverso i cosiddetti "warnings" enunciati dalla stessa sentenza, pressoché letteralmente ripresi dallo stesso legislatore italiano nel codice di procedura penale vigente. È dunque necessario che l'ordinamento preveda, correlativamente, la sanzione processuale dell'inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni rese dall'interessato tutte le volte che tale obbligo procedurale sia stato violato, vale a dire tutte le volte che la persona indagata non sia stata preventivamente avvisata della facoltà di non rispondere a quelle domande;
- tale obbligo procedurale e tale sanzione processuale non sono attualmente previsti in relazione alle circostanze cui si riferiscono le domande previste dall'art. 21 att. c.p.p., nonostante la loro indubbia idoneità ad essere utilizzate contra reum nel corso del procedimento e poi del processo penale. Ne deriva che la persona interessata non è oggi posta in grado di esercitare consapevolmente il proprio diritto al silenzio, e non è in alcun modo tutelata allorché tale diritto sia stato violato;
- l'art. 64, 3°co., c.p.p. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 att. c.p.p. e nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni rese dal soggetto che non abbia ricevuto tali avvertimenti non potranno essere utilizzate nei suoi confronti;
- anche l'art. 495, 1° co., c.p.p. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 att. c.p.p. abbiano reso false dichiarazioni senza che siano stati loro prima formulati gli avvertimenti di cui all'art. 6, 3° co., c.p.p.